Da quelle hip-hop a quelle punk, senza tralasciare le hipster e le rockers, i giovani sono sempre più alla ricerca di tribù. Sono come una religione, una credenza pagana che, se non riesci a trovare la tua identità, te ne propone una già pronta, confezionata e infiocchettata: basta provarla, farci un giro e poi, se non ti sta bene più, metterla in un angolo e provarne un’altra. È facile, è comodo ed è trendy. Ecco perché, oggi come negli anni ’90 e, prima ancora, negli anni ’80 e nei ’70 e via dicendo, si è ritornati, e non se ne poteva fare a meno, a una forte tribalizzazione vestimentaria.
Tra i designer che hanno fatto proprio il concetto di tribù, spicca Riccardo Tisci. Ultimo di 8 figli, a 14 anni era un goth dai molti piercing e dai lunghi capelli neri. Vestiva solo total black, ascoltava i Cure e aveva problemi a comunicare con le altre persone a tal punto che, i suoi unici “amici” erano le sorelle maggiori. Per molti era un outsider, ma non capivano che quello era il suo stile, la sua gang. Così a 17 anni ha lasciato l’Italia conservatrice per cercare la sua tribù.
Ora è il direttore creativo di Givenchy, è riuscito a trovare la sua tribù e a dare al brand francese un’estetica caratterizzante, capace di fare scuola. Ha creato una sua crew di cui fan parte Marina Abramovic, Maria Carla Boscono, Pat McGrath, Kanye West.
Come questa tribalizzazione ha influenzato l’estetica di Givenchy? Basta vedere come Tisci ha utilizzato cristalli, lustrini, ornamenti, glitter, pitture, nose rings per ricreare maschere tribali in una collezione che risulta una fusione tra le tradizioni giapponesi e africane. Questa estetica nasce proprio dall’esperienza goth-adolescenziale di Tisci, quando ha iniziato ad innamorarsi di quelle culture che decorano le persone per religione o per bellezza. Culture proprio come quella africana e aborigena.