Anche la moda non può sottrarsi ad uno dei principali fondamenti etici della società, vale a dire non si può morire lavorando.
Proprio in qusti giorni, il fashion system mondiale ha subìto un grave monito a causa della recente manifestazione svoltasi a Berlino che punta il dito contro il colosso svedese del l’abbigliamento low cost H&M, messo duramente sotto accusa a causa delle pessime condizioni lavorative degli operai impiegati nella sua filiera produttiva.
La maxi-protesta si è svolta nella capitale tedesca nei pressi del centro commerciale Wilmersdofer Arcaden proprio di fronte ad uno dei tanti negozi H&M della città e ha visto la partecipazione di un centinaio di attivisti che non si sono fatti spaventare dalla pioggia incalzante.
All’infuocato grido di “Fashion kills!”, ossia “La moda uccide!” i dissidenti hanno sfilato ed esibito la scritta sul ventre nudo al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale sul delicato tema delle “morti bianche” e della sicurezza sul luogo di lavoro, focalizzando l’attenzione sulle persone fisiche responsabili del processo produttivo che culmina nel vestito o nell’accessorio che intriga milioni di fashion victims, ultimo anello di una catena produttiva situata alle spalle del consumatore, ben più complessa ma spesso anche logorante.
Chi si cela dietro le “quinte” della moda? Un meccanismo subalterno fatto di industrie e persone che però rimane nell’ombra e dal cui indispensabile lavoro dipende il successo e la popolarità di un marchio.
Se si ha la possibilità di comprare e sfoggiare quel prodotto-moda tanto attraente è solo grazie a coloro che appunto si “industriano” per poterlo materialmente realizzare.
Gli operai, appunto, che spesso non sono tutelati sul posto di lavoro e sono sottomessi a disumane condizioni di sfruttamento: turni massacranti sottopagati al limite dell’impossibile in ambienti di lavoro insicuri e malsani, ritenuti appunto estremamente pericolosi e precari fino al punto di procurare la morte a decine dei suoi dipendenti nel giro di pochissimi anni.
Il caso più allarmante si riscontra nel sito produttivo asiatico del Bangladesh, dove risulta che l’azienda non abbia mosso un dito per migliorare le pessime condizioni lavorative che hanno provocato molti incidenti avvenuti proprio fra le mura di quella fabbrica.
Si pensi che solo nel 2010 ben 49 lavoratori hanno perso la vita all’interno delle fabbriche di Hennes&Mauritz – in primis a causa di incendi di fabbrica, ma anche altri tipi di incidenti – e la notizia di questi decessi è stata messa a tacere per non infangare la buona reputazione di cui gode questo celebre brand, che ad oggi rientra tra i maggiori produttori mondiali di prodotti tessili.
Il lavoro è un dovere ma anche e soprattutto un diritto, in virtù del quale l’operaio al servizio di un’azienda deve godere di ogni tipo di tutela per la sua sicurezza e prima di tutto per la sua incolumità personale.
Tutto ciò non risulta in paesi molto poveri come appunto il Bangladesh, dove l’industria del pret-a-porter rappresenta da sola il 40% dell’impiego totale di manodopera industriale: oltre alla già citata H&M, infatti, numerosi altre aziende, tra cui Wal-Mart, Zara, Carrefour, Gap, Marks&Spencer e Levi Strauss hanno costruito lì i propri “imperi del fashion alla portata di tutti” a spese di un paese culturalmente arretrato come il Bangladesh, dove il costo del lavoro e la qualità di vita del lavoratore sono tra i più bassi del mondo.
Ma l’aspetto più drammatico di questa vicenda è che a spesso a lasciarci l’anima (e il corpo) sono purtroppo ben 153 milioni di bambini nella sola Asia, dove purtroppo la forza-lavoro di questi ragazzini diventati precocemente adulti diventa spesso l’unica forma di sostentamento della famiglia.
La moda, innata espressione della radiosità della vita e sublimatrice del potere creativo dell’uomo, non deve cadere nella contraddizione fatale di essere portatrice di morte, e in nome della sua onestà intellettuale non può e non deve uccidere. Mai.