Stabilire se sia la moda ad assecondare i gusti dei consumatori o questi ultimi ad accodarsi alle tendenze imposte dai brand è questione ardua, al pari di quell’atavico interrogativo che macina il dubbio sull’origine dell’uovo e della gallina.
Ora come ora, tuttavia, una cosa è certa: il circuito dell’impresa che genera inclinazioni e detta regole in fatto di abbigliamento ha una fretta spaventosa. Fretta di cambiare per trasformare e di stravolgere per omologare, con l’intento mal celato di risucchiare la cosiddetta modernità nel gorgo stantio dello stile di epoche passate.
In questo vortice, le aziende low cost trovano il terreno fecondo per l’economia del mercato, che si rimpolpa anche grazie all’idea diffusa che l’importante è essere veloci, stare al passo coi tempi scanditi dall’arcobaleno degli scaffali, mica indugiare sulla qualità.
E sia che i prodotti proposti non godano di tutto questo pregio: sono colorati, diversi, allettanti e tanto basta. Si aggiunga, poi, il dato determinante di un prezzo abbordabile ed ecco che il gesto di donare alla Caritas quel maglione fluorescente indossato una sola volta -ma già superato dall’avvento del color avio- si carica di un rigurgito di coscienza che appiana il rimorso della futilità di un incauto acquisto.
Ma anche tutta questa velocità ha un prezzo: un prezzo che i magnati del tessile tentano di ridurre ricorrendo al meccanismo della ‘delocalizzazione’, che permette loro di organizzare la produzione in Stati diversi da quello di appartenenza, in nome della sempiterna, attenuante, ‘globalizzazzione’. Il risultato, per loro, è perfetto: una manodopera tanto efficiente quanto calibrata che poco pretende in termini di retribuzione (circa 38 dollari al mese per 12 ore di lavoro al giorno).
Poi, accade che a Dacca, capitale del Bangladesh, crolli un edificio, sede di alcune fabbriche che rifornivano imprese tessili statunitensi ed europee, si contino quasi 400 vittime e partano i consueti e nauseanti rimpalli di responsabilità, le scuse deprimenti da parte delle aziende interessate e l’attivismo al rimedio tardivo di coloro che scodinzolano una coda di paglia.
Sperare che a seguito di tragedie come questa le cose cambino da un giorno all’altro significa peccare di ingenuo idealismo, ma firmare una petizione internazionale per chiedere a tutti i marchi coinvolti di intervenire immediatamente a sostegno delle vittime, firmando l’accordo per la prevenzione degli incendi e la sicurezza delle fabbriche in Bangladesh, è un gesto forte e concreto, che rientra nel diritto del consumatore di pretendere che i prodotti scelti non siano il frutto di un’indecente assenza di umanità e di rispetto per i diritti fondamentali dell’uomo.