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Il Giappone e i suoi robot. Una storia iniziata molti secoli fa

Quando i robot sono più umani dell’umanità”, si legge in “Io, Robot”, antologia di racconti di fantascienza pubblicata da Isaac Asimov nel 1950. A distanza di 60 anni queste parole suonano come una profezia. Forse non è lontano il giorno in cui le macchine saranno capaci di provare sentimenti. Igiapponesi, raffinati creatori di robot umanoidi, ne sono certi.

Il fascino che esercitano i congegni meccanici è vecchio quanto il mondo. Fin dai tempi di Dedalo l’uomo sogna a occhi aperti un futuro popolato da congegni astrusi e prodigiosi. Una passione che ha attraversato i secoli, che si è diffusa di paese in paese, di cultura in cultura. Il Giappone medievale, lontano dal mondo “al di là del mare” era arretrato rispetto all’Europa. Ciononostante ha vissuto il suo rapporto con le macchine in modo del tutto peculiare. Una nota favola risalente al XII secolo d.C. racconta di un principe di Kyoto che costruì un automa dalle sembianze di ragazzo, in grado di versare acqua sui campi. Con tale fantastico congegno il principe riuscì a salvare il proprio raccolto da una grave siccità.

Nel ‘600, in epoca Tokugawa, si diffusero in Giappone le “karakuri ningyoh”, bambole meccaniche capaci di compiere azioni per l’epoca sorprendenti. Bambole che servivano il tè agli ospiti o che scagliavano frecce, costruite in legno pregiato dalle abili mani di maestri appartenenti ad antiche dinastie di samurai. Anche in Europa nello stesso periodo impazzava la moda degli automi, ma le creazioni giapponesi erano speciali perché avevano uno scopo diverso. Non solo stupire, ma anche essere utili all’uomo, se non prenderne il posto.

Nel XX secolo il Giappone post-atomico ha visto un’incredibile espansione dell’industria elettronica e dell’automazione. Le “macchine” sono diventate in pochi anni la punta di diamante di un Paese che non ha mai nascosto la propria ambizione. “Ambitious Japan” è scritto sui treni supervelocishinkansen. E quest’ambizione lo ha portato oggi a realizzare incredibili robot dalle fattezze umane.

Non siamo lontani da Tetsuwan Atomu (in Italia “Astroboy”), il robot dalle sembianze di ragazzo che spopolò nel ’63 dando inizio al filone delle serie animate giapponesi per la tv. Era il tema del ragazzo meccanico, caro alla cultura nipponica, che tornava dopo secoli diventando “character” (personaggio) in molti mangaanime di successo. Pensiamo a KyashanHurricane Polymar e tanti altri. Perché il ragazzo meccanico è l’incarnazione del giapponese di oggi, forse di sempre. Un uomo in lotta con se stesso, tra perfezionismo e sentimento.

Da qualche anno la Kokoro Company Ltd (gruppo Sanrio) stupisce il mondo con i suoi Actroids, eredi del piccolo ASIMO della HondaRobot in tutto e per tutto identici agli esseri umani, in grado di riprodurne movimenti ed espressioni facciali. Appaiono ai nostri occhi come splendide ragazze, truccate e vestite alla moda. Ci guardano e ci parlano dei loro hobby, dei loro sogni. E se ci vedono meravigliati, esclamano ridendo: “Davvero pensavate che fossi un essere umano?”.

Il Prof. Hiroshi Ishiguro, scienziato che si occupa di robotica all’Università di Osaka, ha realizzato per Kokoro una copia perfetta di se stesso, battezzandola Geminoid HI-1. In questo modo potrà far lezione ai suoi studenti lontano dalle aule universitarie. Gli basterà collegare dei sensori al volto e al corpo, così da comandare il robot gemello a distanza. In un documentario prodotto da Discovery Atlas, il Prof. Ishiguro esprime chiaramente il suo pensiero al riguardo: “Il problema è: dove si trova l’anima? I giapponesi hanno sempre pensato che l’anima si trovi ovunque e in ogni cosa. Perciò non hanno alcuna difficoltà ad accettare l’idea che anche un robot abbia un’anima. Noi non facciamo troppe distinzioni tra esseri umani e robot”. È il credo dello shintoismo.

Siamo all’alba di una nuova era, dunque. I robot presto diventeranno un’importante risorsa per l’uomo. Lo sono già adesso per molti aspetti. Forse un giorno si ribelleranno e ci combatteranno. Una cosa è certa: vivono in mezzo a noi.

By:: Gennaro Cutillo