Quella di Leonard Freed è una storia affascinante che fa capire come la passione e il talento a volte vadano di pari passo nella vita di un’artista. Nato a Brooklyn nel 1929, Freed sogna di fare il pittore fino a quando durante un viaggio nei Paesi Bassi avviene l’incontro con la fotografia, quell’arte da lui stesso definita come “forma di comunicazione destinata a tutti e con cui le altre forme di arte visiva prima o poi avrebbero dovuto fare pace”. L’inizio della sua carriera come fotoreporter non poteva essere più promettente, tre fotografie del suo portfolio vengono infatti scelte da Edward Steichen per la collezione del MoMA di New York. Ma la dimensione che gli permise fino in fondo di esprimere la sua artisticità fu molto probabilmente il viaggio, fonte di inesauribile energia da cui attinse senza remore. Attraversò molti continenti con la sua macchina fotografica in spalla e forse ancor prima della televisione riconobbe l’importanza di testimoniare momenti significativi degli ultimi decenni della storia moderna. La reazione che si ha, osservando le foto di Leonard Freed, è simile a quella provata davanti agli scatti di alcuni fotoreporter del calibro di Steve McQueen, Alfred Eisenstaedt e Jeff Widener e cioè come è stato possibile che qualcuno in quel momento sia riuscito a immortalare quell’attimo senza rimanere travolto dalla drammaticità che l’immagine stessa emanava? Come si fa a essere sulla scena di un suicidio ad Harlem, in un carcere femminile a documentare il dilagare della prostituzione minorile a New York, a fianco dei diritti delle popolazioni di colore durante la storica marcia attraverso gli Stati Uniti di Martin Luther King, a testimoniare il dolore straziante della Germania degli anni ’60 divisa in due e le devastazioni della guerra del Kippur nel 1973? Freed era convinto che la vita fosse un racconto e i suoi scatti fanno parte di quella narrazione mai interrotta. Quello che Freed persegue è una fotografia che si tramuta in linguaggio universale e che, con le sue stesse parole, “si possa estrapolare dal contesto e appendere in parete per essere letta come un poema”.
Nel 1972 diventa membro della Magnum Photos, collabora con riviste prestigiose tra cui Der Spiegel, Die Zeit, Fortune, Libération, Life, Look, Paris Match, Stern e il Sunday Times. Capitolo a parte è quello dell’enorme archivio fotografico che Freed riservò all’Italia, paese che amò profondamente e in cui tornò per 45 volte. Napoli, Palermo, Firenze, Roma, sono solo alcune delle città in cui Freed seppe cogliere volti e luoghi del Belpaese destinati a rimanere iconici. “Immagini emotive” come venivano definite da Freed stesso, che non hanno solo la funzione di informare ma piuttosto quella di indagare l’animo umano nella sua dimensione profonda come avviene per i suoi lavori più noti tra cui il reportage denuncia New York Police o quello dedicato al tema della discriminazione razziale Black in White America. Capace di cogliere la struggente poesia del passato anche negli angoli più remoti della città, Freed ha instaurato un legame con l’Italia molto forte, come testimoniato dalle recenti esposizioni dell’artista nel nostro paese, di cui l’ultima dal titolo “Leonard Freed. Io amo l’Italia” allestita al Museo di Roma in Trastevere. Dell’Italia diceva “il passato è sempre presente non solo nei luoghi ma nella vita quotidiana della gente”.