Di strano c’è che ancora adesso Wikipedia allo stilista Christopher Lemaire non dedica un rigo. Però scrive dell’omonimo che di mestiere fa il jockey, ovvero il fantino.
In verità circa un anno fa, paginate e paginate furono scritte dopo che Hermés lo annunciò come il successore di Jean Paul Gaultier. Un prestigioso quotidiano newyorkese parlò addirittura di notizia scioccante. Ma Lemaire lo stilista, classe 1965, sorride quando gli ricordano l’episodio. Si capisce che il pensiero che gli balena è non ti curare di loro ma guarda e passa. Non presuntuoso, ma sicuro di essere al posto giusto nel momento giusto.
Ecco quello che trasmette quest’uomo ancora ragazzo, alto e magro, dalla carnagione chiara, quasi bianca. Grandi occhi, incavati. Lungo ciuffo che gli scende sulla fronte, scostato continuamente da una mano scarna.
Lemaire nasce a Besançon. I suoi genitori lo portano presto a Parigi. E poi in Africa. In Senegal, a Dakar, dove la mamma lavorava all’università. Lui studia lettere e poi arte. A 19 anni non ha idea di cosa vuol fare nella vita. Sa, però, una cosa: vestirsi è una scelta culturale, come quando si decide cosa leggere, cosa mangiare, come vivere. «Non ho mai visto la moda come qualcosa di chiuso, anzi – dice – L’abito fa parte del quotidiano e abbellire il quotidiano mi è sempre piaciuto». Cominciò da Mugler, proseguì con lo stage da Yves Saint Laurent e il posto da assistente da Lacroix. Si definisce un appassionato che però si tiene distante dal fashion system, dal delirio spettacolare che crea confusioni e assurdità.
Per Lemaire i giorni dopo il debutto sulla passerella francese sono stati quelli della soddisfazione. «Sono riuscito a far capire ciò che volevo dire trovando l’equilibrio fra abiti che lasciano liberi i movimenti e l’ispirazione che è nomade. Il tutto nello spirito Hermès che è quello del lusso e di uno stile che non ha nulla a che fare con la moda».
Lemaire ha più volte sottolineato che Hermès non fa moda, quasi a desacralizzare la moda stessa. «A me interessa lo stile, non la moda. E per questo ci vuole tempo, per vivere e pensare e sognare ed evolversi. Non mi piace questa storia del cambiamento dei guardaroba. Per essere alla moda è assurdo che una donna che ha il proprio stile debba uniformarsi agli altri. Vestirsi non è una cosa futile, come troppi credono. Noi abitiamo nei nostri abiti, tutto il giorno. E quindi è il modo di dire che siamo, da dove veniamo, dove vogliamo andare. Walter Albini diceva che “vestirsi è quello che si è”. Vestirsi è una cosa profonda, che merita, io amo proporre abiti “convertibili”, senza tempo. E occorre per questo la migliore qualità».
Lemaire racconta che quando Alexis Dumas, ovvero il “signor Hermès” lo ha contattato, si è sentito onorato e sorpreso ma allo stesso tempo si è accorto che quanto accadeva gli apparteneva, faceva parte del suo spirito. Anche se, dopo dieci anni passati in Lacoste, non pochi hanno trovato il passaggio bizzarro e azzardato. «Io invece ho trovato la proposta intelligente perché ha significato attenzione al mio lavoro. E anche se sono una persona discreta Hermès mi ha trovato e penso questo sia una bella cosa in un mondo che guarda troppo solo la superficie».
Ma Christopher Lemaire non è solo sinonimo di fashion lyfe. Ha un figlio di 19 anni, e nella vita di tutti i giorni legge, va al cinema, sta con gli amici. «È importante vivere una vita normale per un designer, prendere un bus, un metrò…Comprendi anche meglio una casa come Hermès che pensa all’uso che si fa degli abiti, per esempio. E per questo è bene capire quali sono i gesti di una donna contemporanea». Rimane tuttavia difficile pensare alla donna Hermès che prende abitualmente il metrò…ma se lo dice lui!