“Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà,
anche quelli che lo trafissero,
e per lui tutte le tribù della terra
si batteranno il petto.
Sì, Amen!”
( dal Libro dell’Apocalisse di Giovanni)
Una scenografia apocalittica, Adamo ed Eva della fine dei tempi, un Dio imperfetto che cerca, invano, la perfezione perduta. Si apre così il sipario di “Yesus Christo Vogue”, la terza pièce dopo “Io, mai niente con nessuno avevo fatto” e “Battuage”della compagnia teatrale siciliana Vucciria Teatro, in scena fino al 26 marzo al Teatro dell’Orologio di Roma. Joele Anastasi, autore e regista della tragedia impossibile in un atto unico, è la voce narrante di un racconto grunge e sperimentale che rende la rappresentazione teatrale specchio del suo tempo con nuove incursioni di performing art ed esperienze multisensoriali, visive e sceniche.
Anastasi è il Cristo velato dalla sporcizia della contemporaneità, dalle guerre, dall’immondizia dilagante nel mondo, dalla corruzione, dal senso putrido dell’arrivismo umano che non lasciano spazio all’autodeterminazione. Soffocandola in un universo ibrido tra finito e infinito, in cui il dolore e la ricerca della morte sono lo schiaffo morale all’etica nel tentativo di generare nuovi miti da venerare.
Un’indagine sul rapporto conflittuale tra uomo e ambiente, sul Cristianesimo, oppio dei popoli, sulla mediocrità del genere umano. La crisi della spiritualità in cui, forse, non è solo Dio a morire in scena, ma anche i valori più puri, come la bellezza della genitorialità, che diventa l’ennesimo cappio in cui strozzare la speranza nel futuro.
I superstiti del mondo distrutto creato dall’autore in “Yesus Christo Vogue”, Enrico Sortino e Federica Carruba Toscano, giocano a rinfacciarsi l’inutilità delle loro vite,anestetizzate dalla sofferenza di essere gli ultimi, in un nudo “situazionismo” fatto di dolore e frustrazione da cui è difficile liberarsi. Perché la presenza divina è troppo impegnata a rigenerarsi dietro le quinte, a fare palestra con il suo corpo trafitto dall’inutilità dell’essere umano, a riempirsi la corona di spine di fiori. Nella pièce ci sono il senso della ricerca di una gloria perduta, il possibilismo di una resurrezione vanificata dalla futilità della contemporaneità, sepolta dalle macerie dell’egoismo. Il Dio 2.0, colui che manca, l’onnipotente assente che non si manifesta e lascia all’uomo il libero arbitrio. Generando crisi,conflitti e sconcertanti fatti di cronaca nera pronti per essere cotti e mangiati dagli sciacalli mediatici. Che li rivendono al miglior offerente.
Se la Speranza fosse una divinità, in “Yesus Christo Vogue” sarebbe morta sul palcoscenico di un teatro. Così come la pietà. Perché é con la riflessione collettiva, spogliandosi dalle fittizie sovrastrutture dell’autocelebrazione individuale, che si può costruire un domani diverso dall’apocalisse che, anche se si fa finta di non accorgersene, è già in atto.