L’illustre testata americana New York Times, in collaborazione con l’agenzia di stampa britannica Reuters, ha stilato la graduatoria annuale delle università più prestigiose del mondo. Il risultato non è dei più esaltanti per gli atenei italiani, il primo dei quali, quello di Bologna, si colloca appena al 226esimo posto.
Considerata la scarsezza qualitativa delle strutture, la mediocrità dei professori e dei loro insegnamenti e la mancanza di esperienza fornita agli studenti durante gli studi, la cultura dei “dott.” nazionali sarebbe aria fritta nel guazzabuglio vuoto del pressapochismo tricolore.
E, siccome pare che oggi un giudizio a stelle e strisce impressioni almeno quanto le profezie catastrofiche dei Maya, bisogna crederci perdutamente, per non rischiare un aumento dello spread anche per l’insolente miscredenza verso uno dei tanti responsi made in USA.
Prendiamo atto, dunque, che del percorso formativo affrontato dopo il liceo non resti altro che il quadretto di pergamena appeso alla parete dello studio di casa, come una sorta di premio di consolazione per una gara di vana gloria, dove l’importante è stato partecipare, dato che da vincere non c’era un bel niente.
Non importa cosa si sia imparato nel frattempo, di pari passo con le dottrine di manuali “scadenti” e le lectio magistralis di docenti nemmeno tanto illustri, perché tra i parametri di riferimento non si contemplano i fattori, per così dire, “umani” acquisiti grazie all’esperienza totalizzante dell’università .
Ciò che conta è l’involucro che incarta, non il contenuto imballato, che resta marchiato da un codice a barre e decifrato con infrarossi che riconoscono numeri di matricola, non persone.
Quello che s’impara in quegli anni, dalla capacità di riuscire ad affrontare le prime prove veramente difficili alla gestione autonoma del proprio tempo, sono elementi che cambiano abitudini e forgiano caratteri, che, nel bene e nel male, trasformano gli adolescenti di oggi negli adulti di domani.
Chi quella laurea “fuffa” l’ha conseguita con impegno sa cosa significhino gli anni pieni di caffeina, le ore passate nei gironi infernali di anime compresse chiamate aule, le cene in scatola e i pranzi rimediati alla buona, i boschi di matite temperate e le lunghe attese sfociate nelle maledizioni per l’esame sfortunato e negli «e vai!» per quello superato.
Sono ricordi che si conservano dentro, fino a “quel giorno” drogato di adrenalina, col primo libro della vita stretto tra le braccia, con l’orgoglio di mamma e papà in formato lacrima, con la toga nera e il “tocco” in testa, con le mani sudate e lo spumante stappato. Memorie nitide, riflesse sulla resa mai contemplata, per “questione di principio”, perché “ce la devo fare”, per quella forza di volontà tutta italiana, che valla a spiegare agli americani…
Poi, un giorno, arriva “la statistica” e, con la freddezza cinica di una calcolatrice che degrada la vita vissuta ad un indefinito conteggio alfanumerico, stabilisce che lo studente italiano, privo dei “money” necessari a occupare la sedia del California Insitute of Tecnology, di Harvard o della Stanford University, rimane culturalmente scarso, destinato ad arrancare tra le menti eccelse del pianeta.
È vero, la laurea in Italia è quella “cosa” che se non ce l’hai sei un deficiente e se ce l’hai non vali comunque. Ma anche se “questo passa il convento”, tra chi spicca il volo oltreoceano e chi raggiunge le università dell’Albania per sentirsi migliore, c’è chi in Italia resta e sceglie di studiare con passione, senza per questo aderire all’ordine monastico dei “senza arte né parte” al quale le classifiche livellanti lo consegnano.