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Novanta volti di umana follia

"A Pakistan shell collection" by Alexandra Boulat - Pakistan, 2001

SOUNDTRACK: The Rolling Stone – Gimme Shelter

Homo homini lupus (“L’uomo è un lupo per gli uomini”), affermava il filosofo inglese Thomas Hobbes, riprendendo un concetto il cui precedente più antico si ritrova all’interno dell’Asinaria di Plauto. Una piaga che, quasi come un deus ex machina, domina e controlla la condizione umana, servendosi delle motivazioni più alte e profonde per oscurare atroci verità.

Potrebbe essere questo il riassunto di Ombre di guerra, la mostra itinerante, appena terminata al museo dell’Ara Pacis di Roma. Novanta scatti di vita e di morte, di corpi dilaniati ora da una pallottola, ora da una bomba, di volti alienati dal dolore, o dalla cieca consapevolezza di quel “dovere” nei confronti della propria patria che si sta per compiere.

“Tank Man”, Jeff Widener (Associated Press) – Pechino, 1989

Immagini immobili, come il ragazzo cinese, chiamato da tutti i media Tank Man, il rivoltoso sconosciuto, che la mattina del 5 giugno 1989, bloccò, con soli due sacchetti di plastica, una fila carri armati, chiamati per sgomberare Piazza Tienanmen dalla protesta studentesca. Immagini che bruciano, come le ustioni provocate dal napalm sul corpo nudo di una bambina vietnamita di appena nove anni, Kim Phúc, in fuga da una guerra molto più grande di lei.

“War, children, it’s just a shot away”, cantavano i Rolling Stones nel ’69. “La guerra è vicina, potrebbe arrivare da un momento all’altro”, ti sembra di ascoltare, avvicinandoti alla cornice di vetro con cui queste immagini sono state affisse al muro bianco della sala. Lo raccontano i volti  d’ebano dei soldati del Darfur, così come il miliziano ripreso da Robert Capa, colpito a morte durante la guerra civile spagnola del 1936.

Kim Phúc – “World Press Photo of the Year 1972” by Nick Út – South Vietnam, 1972

“In guerra la verità emerge. Tesa tra la vita e la morte, la gente si rivela, getta la maschera e si mostra con un’onestà che non c’è altrove nella vita”, confidava il fotografo Philip Jones Griffiths, reduce dalla Guerra in Vietnam. Una lotta per la sopravvivenza, che non conosce pietà per il più debole, per il più piccolo o per il più povero. Eserciti addestrati per uccidere, uomini e donne costretti a tacere e a scappare. Dagli orrori commessi dall’esercito americano ad Abu Ghraib e Bagram, in Iraq, alle fosse comuni in Cecenia, tra queste mura si respira aria di sangue e odore di pelle bruciata, mentre tutto, al di fuori da qui, appare normale, consueto.

“Fotografie come invito alla riflessione e al dibattito su come dire basta alla violenza”, afferma Umberto Veronesi, creatore del progetto insieme alla sua Fondazione e all’associazione Science for Peace. Guerre che continuano a prosciugare le tasche delle Nazioni più potenti. Centoventicinque milioni di dollari circa, a notte, per dei raid aerei Nato. Più di 20 milioni di dollari per un caccia bombardiere F-16. Settecentocinquanta mila per un missile BGM-109 Tomahawk Cruise, l’arma intelligente, come definito dal Dipartimento di Stato americano. Soldi, tanti soldi che potrebbero, invece, curare, sfamare, educare. Vite, troppe vite che, purtroppo, per chi comanda, non hanno lo stesso prestigioso valore.

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